Una puntata nata da una serie di conversazioni e osservazioni che mi stanno facendo pensare che siamo in un momento di passaggio e di ripensamento del concetto di lavoro.
Ho la sensazione che stiamo passando per una sorta rifiuto del lavoro in toto, un po' come succede quando ci si lascia male dopo una lunga relazione, no? E magari si dice "Basta, io non voglio più relazioni, voglio rimanere sola per sempre".
In questo episodio vediamo insieme
- una serie di atteggiamenti verso il lavoro un po' diversi dal solito,
- un paio di fenomeni relativi al lavoro,
- le mie riflessioni al riguardo.
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Ciao gente, come butta? La puntata di oggi nasce da una serie di conversazioni che mi è capitato di fare negli ultimi mesi con le persone che a fianco ma non soltanto, cioè anche con amiche con un lavoro dipendente, con colleghe freelance, con le persone che hanno partecipato al gruppo di lettura qui a Milano che con Mariachiara Tirinzoni abbiamo organizzato a Scamamù.
Conversazioni interiori anche.
facciamo spazio è un podcast che parla di gestione del lavoro con il benessere al centro, attraverso osservazioni, idee e spunti per riflettere e agire.
Io invece, la voce, sono Giada Centofanti, autrice di facciamo spazio e di mestiere business coach e consulente.
Queste conversazioni hanno portato più o meno fra le righe una riflessione che, se vogliamo, possiamo trasformare in domanda, e cioè nella nostra vita, nelle nostre teste, quanto spazio occupa il lavoro? Che cosa vi siete risposte? Io all'inizio mi sono detta troppo. Poi ho... Mi sono mi sono calmata. Ho ampliato la riflessione e ho modificato la risposta
in "tanto". Occupa tanto spazio perché la mia attività professionale è agli inizi e è un momento in cui io ho bisogno e anche voglia di spingere sull'acceleratore perché voglio farla ingranare e voglio farla funzionare. Ma sto anche attenta a tenermi d'occhio a far sì che non occupi tutto lo spazio. Perché non avrebbe senso.
Non mi farebbe stare bene. Eroderebbe la mia creatività, smetterebbe di darmi gioia.
Il movimento interessante che sto osservando nelle persone che hanno professioni intellettuali, anche grazie a quelle conversazioni di cui vi parlavo all'inizio è un desiderio spontaneo e naturale di ricalibrare gli spazi, di dirsi e poi di agire di conseguenza, che è legittimo che esistano cose più interessanti, più divertenti, più gratificanti del lavoro.
Per esempio la mia amica e collega Alessia Lobascio l'anno scorso si è iscritta all'università per onorare un desiderio che aveva da tempo. Molte delle mie clienti hanno cominciato a dirsi che hanno voglia di altro, di viaggi, di famiglia, di esperienze, di spazi vuoti e che sì, il lavoro ci piace
ma non è tutto. Alcune persone che ho incontrato hanno ridimensionato l'impegno e il carico emotivo che mettono nel loro lavoro dipendente, smettendo di fare sempre di più, come a volte le culture aziendali richiedono, e facendo invece il giusto, perché poi quando escono dall'ufficio, c'è una vita intera da scoprire.
Altre in un momento di passaggio tra un lavoro e l'altro hanno sperimentato com'è vivere senza i paletti dell'orario lavorativo e a cosa si può fare spazio quando siamo più libere di disporre delle nostre energie. Altre ancora hanno concluso un rapporto di lavoro e non sono affatto convinte di volerne trovare uno nuovo.
Se ci pensate questi comportamenti non sono una novità assoluta, no?
E d'altra parte negli ultimi mesi abbiamo sentito parlare di Great Resignation e Quiet Quitting. Abbiamo messo un'etichetta forse a qualcosa che già era esistito in passato, ma magari sono cose che sono tornate alla luce maggiormente nel periodo pandemico, post pandemico. La Great Resignation, che in italiano diventa grandi dimissioni,
è un fenomeno che ha interessato e sta ancora interessando tanti lavoratori nordamericani e in parte anche europei. Ed è cominciato durante il covid, proprio quando le persone hanno cominciato a usare le energie e il tempo non solo per il lavoro, ma anche per fare altro. Un periodo che quindi ha portato le persone a fermarsi e a fare probabilmente un lavoro di introspezione che forse prima non avevano avuto modo di fare.
In questo modo molti hanno cominciato a lasciare il lavoro, a ridurne l'orario, a cambiarlo per uno con un minore impatto sul loro benessere, per poter così recuperare dei ritmi e tempi più umani.
E poi ci sono quelle persone che hanno mantenuto il lavoro ma gli hanno messo dei confini, lo dicevamo anche un po' prima in uno degli esempi, no? Hanno smesso di farsi costringere dalla cultura aziendale a sacrificarsi sull'altare della carriera e hanno deciso di fare quello che basta per portare a compimento le loro mansioni senza straordinari o progetti extra, no? Vengono definiti Quiet Quitters.
Coloro che abbandonano silenziosamente. Però, se ci pensate, in realtà non è che si tratta proprio di un abbandono, ma mi verrebbe quasi da dire di tutela di se faccio quello per cui vengo pagata non un millimetro di più, perché voglio preservare le energie per quello che posso vivere fuori dall'ufficio.
E anche il gruppo Fior di risorse, che è sempre sul pezzo, qualche mese fa ha diffuso un sondaggio manageriale intitolato "Abbiamo ancora voglia di lavorare?". E questa domanda è anche il tema del loro nobilita Festival di quest'anno, ma che cosa ci sta chiedendo? Che domanda è? No. Che tipo di domanda è? Che cosa ci sta chiedendo in realtà? È secondo me una domanda azzeccata che ci invita ad andare più a fondo per capire se si tratta soltanto di una questione di modelli di organizzazione del lavoro che non sono più sostenibili e vanno cambiati oppure c'è altro sotto. E non è che magari serve proprio un ampliamento della prospettiva a tutti gli ambiti della vita per poter capire meglio?
Insomma, in generale, quello che osservo è che siamo in un momento di passaggio in cui il velo sta cadendo. Abbiamo aperto un dialogo interiore e stiamo comprendendo che il lavoro, così come ce l'hanno proposto fino ad oggi, non funziona più, non ci fa stare bene e che quell'essere super impegnate e occupate, sempre in mezzo alle cose da fare, di successo non è più lo status che desideriamo.
Semmai qualcuna di noi l'avesse mai desiderato, no? Ho però ho la sensazione che stiamo passando per una sorta di rifiuto del lavoro in toto, un po', come succede quando ci si lascia male dopo una lunga relazione e magari si dice "Ah, basta. Io non voglio più relazioni, voglio rimanere sola per sempre". Poi però succede che piano piano si riscopre che esisteva anche il divertimento , il piacere e la gioia di essere in una relazione.
Ma in mezzo al rifiuto iniziale e alla riscoperta dopo c'è un passaggio importante secondo me e cioè ritrovare se stesse, stare bene da sole, ricentrarsi, avere cura di sé, fare cose che ci fanno stare bene. Giustamente penserete, quella che abbiamo con il lavoro non è una relazione amorosa. No, non lo è assolutamente.
Però in un certo senso è una relazione, un tipo di relazione e credo che anche in questo caso quel passaggio di mezzo sia fondamentale perché questa relazione sia sana. Quindi conoscerci, avere consapevolezza di cosa ci fa stare bene, riconoscere il modo in cui siamo state condizionate, imparare a mettere confini per tenere a bada le cose che non ci fanno stare bene.
Questa è la chiave per fare in modo che il lavoro smetta di occupare tutto lo spazio e sia invece una relazione e uno strumento che riesce a contribuire a una vita gioiosa.
E questo è proprio quello su cui lavoro attraverso i miei percorsi di coaching, quindi sappiate che se volete essere accompagnate su questa strada, io ci sono. Nel frattempo vi invito come sempre a fare le vostre riflessioni sul tema della puntata e se volete a condividerle con me, raggiungendomi su LinkedIn Instagram.
Nella prossima puntata parleremo di quanto sia diventato complicato lasciare che i nostri hobby, le nostre espressioni creative, non diventino per forza un lavoro. Ma ne parliamo la prossima volta. Intanto grazie di essere state con me fino a qui e a presto.